2.MATOFOBIA: LA PAURA DI APPRENDERE
dal Mindstorms di Seymour Papert

Platone aveva scritto sulla sua porta: "Nessuno entri se non è geometra". I tempi sono cambiati. La maggior parte di coloro i quali, oggi, cercano di entrare nel mondo intellettuale di Platone non conoscono la matematica. ne vedono la minima contraddizione nell'ignorare la sua ingiunzione. La scissione schizofrenica della nostra cultura tra "conoscenze scientifiche" e "conoscenze umanistiche" sostiene la loro sicurezza. Platone era un filosofo, e la filosofia fa parte delle discipline umanistiche esattamente come La matematica fa parte delle scienze.

Questa grande separazionee si è completamente integrata nel nostro linguaggio. nella nostra visione del mondo, nella nostra organizzazione sociale, nel nostro sistema educativo e di recente, è entrata anche nelle teorie neurofisiologiche. Si autoperpetua: più la cultura e divisa, e più ogni settore, crescendo, rinforza la scissione.

Ho già suggerito che l'elaboratore può servire da forza per abbattere il muro tra le "due culture". Io so che l'umanista sarà tentato di dubitare che una "tecnologia" possa modificare i suoi assunti sul genere di conoscenze che sono pertinenti al suo campo di studi. Quanto allo scienziato, può, nella stessa misura, temere di vedere attenuato il rigore della sua disciplina dall'intromissione di un pensiero umanistico "poco consistente". Tuttavia, mi sembra che la presenza dell'elaboratore potrebbe gettare i semi per lo sviluppo di una cultura critica meno dissociata.

Lo stato della matematica nella cultura contemporanea è uno dei sintomi più acuti della dissociazione di quest'ultima. L'emergere di una matematica "umanistica", tale da non essere più percepita come separata dalle scienze dell'uomo e dalle "discipline umanistiche" potrebbe ben essere il segno di un cambiamento in vista. In quest'opera io cerco appunto di mostrare come l'elaboratore potrebbe condurre i bambini a stabilire con la matematica una relazione più "umanistica " e al tempo stesso più umana. Per raggiungere questo scopo devo andare oltre una discussione sulla matematica, per sviluppare una nuova prospettiva sul processo d'apprendimento stesso. Non è raro vedere adulti intelligenti trasformarsi in spettatori passivi della loro incompetenza di fronte ad una matematica men che rudimentale. Si possono osservare le conseguenze dirette di questa paralisi intellettuale in termini di limitazioni di possibilità di lavoro. Ma le conseguenze indirette, secondarie, sono anche più gravi.

Una delle principali lezioni apprese dalla maggior parte delle persone in un'aula di matematica è la sensazione di avere delle rigide limitazioni. Si acquisisce un'immagine da spartizione delle zone di competenza delle conoscenze umane, che sono viste come un mosaico di territori separati da insuperabili cortine di ferro. Le mie obiezioni non riguardano la sovranità dei territori intellettuali, ma le restrizioni imposte alla libera circolazione dall'uno all'altro. Non è mia intenzione ridurre la matematica a letteratura né la letteratura a matematica. Ma voglio far intendere che i loro rispettivi modi di pensare non sono tanto lontani come solitamente si crede. Ecco perché mi avvalgo dell'immagine di Matelandia - il paese in cui la matematica sarebbe la lingua naturale - per sviluppare la mia idea che la presenza dell'elaboratore potrebbe avvicinare l'una all'altra le culture umanistiche e matematico-scientifiche. Matelandia, in questo libro, non è che il primo passo in un ragionamento più vasto riguardo a come la presenza dell'elaboratore può cambiare non soltanto la didattica della matematica, ma, in maniera più fondamentale, la concezione della conoscenza e dell'apprendimento. Il termine " matofobia " mi evoca due associazioni d'idee. Una è la paura diffusa della matematica, paura che spesso ha l'intensità di una vera fobia; l'altra deriva dall'etimologia della radice " math ". In greco designa tutto ciò che è collegato all'"apprendimento".*
[* II significato originale è presente nella parola della lingua inglese "polymath ", una persona erudita in molti campi. Una parola meno conosciuta, con la stessa radice, che userò nei capitoli successivi è " matetico ", concernente l'apprendimento.]

Nella nostra cultura, la paura di un qualsiasi apprendimento non è meno endemica ( sebbene più frequentemente camuffata) di quella della matematica. I bambini cominciano la loro vita con un grande desiderio e una grande capacità d'imparare. Per essi avere difficoltà con l'apprendimento in generale, e con la matematica in particolare, non è un atteggiamento spontaneo, bensì appreso. Nei due sensi del tema " math ", c'è uno slittamento da matofilo a matofobo, vale a dire, da uno che ama la matematica e l'apprendimento a uno che li teme entrambi. Osserveremo, dunque, come ha luogo questo cambiamento, e ci faremo un'idea di come la presenza dell'elaboratore potrebbe evitarlo. Iniziamo riflettendo su che cos'è l'apprendimento per un bambino.

Che i bambini apprendano una gran quantità di cose sembra tanto ovvio a quasi tutti gli adulti che essi ritengono di scarso interesse l'occuparsene. Un ambito in cui la rapidità di apprendimento si manifesta chiaramente è il vocabolario parlato. All'età di due anni pochissimi bambini dispongono di più di un centinaio di parole. Quattro anni dopo, al momento di entrare nella scuola elementare, ne conoscono a migliaia. Evidentemente ogni giorno s'impadroniscono di nuove parole.

Mentre possiamo " vedere " i progressi del bambino nella lingua, non è così facile percepire quelli meno evidenti, ma altrettanto rapidi, nella matematica. Che questo avvenga è precisamente quanto mostrano gli studi condotti da Piaget, durante tutta la sua vita, sulla genesi della conoscenza nei bambini. Una delle conseguenze più inaspettate delle sue scoperte è la rivelazione che gli adulti sono incapaci di rendersi conto dell'estensione e della natura di quello che i bambini apprendono, perché le strutture della conoscenza che noi diamo per scontate lo hanno reso in gran parte invisibile. Lo vediamo invece con maggiore chiarezza nelle esperienze ormai note come prova dei vari tipi di " conservazione " piagetiana.

Per un adulto è ovvio che, travasando un liquido da un recipiente in un altro, il volume non cambia (trascurando certi effetti marginali quali alcune gocce che cadono o quelle che restano nel primo recipiente). La conservazione dei volumi è tanto ovvia che nessun altro prima di Piaget sembra si sia reso conto che i bambini di quattro anni potrebbero non trovarla ovvia affatto.*
[* Gli adulti sono vissuti con i bambini a lungo. Il fatto che abbiamo dovuto attendere che Piaget ci dicesse in che modo essi pensano e che cosa noi adulti dimentichiamo del nostro pensiero intanlile è così notevole da suggerire un modello freudiano di " repressione cognitiva".]

L'intelligenza del bambino deve crescere

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in modo sostanziale prima che la nozione generale di " conservazione " si possa sviluppare. La conservazione del volume non è che uno dei molti tipi di conservazione che tutti i bambini acquisiscono. Un'altra è quella dei numeri. Di nuovo non verrebbe in mente a quasi nessun adulto che un bambino debba imparare che contare una collezione di oggetti posti in ordine differente deve dare lo stesso risultato. Per gli adulti enumerare è semplicemente un metodo per determinare quanti oggetti " ci sono ". Il risultato dell'operazione è un fatto " oggettivo " indipendente dall'atto di contare. Ma la distinzione tra il numero e l'atto di contare (tra il risultato e il processo che porta a questo risultato) si fonda su dei presupposti epistemologici che non solo sono sconosciuti ai bambini che non hanno ancora acquisito la struttura di conservazione, ma risultano addirittura estranei alla loro visione del mondo.

Tali strutture di conservazione non sono che una parte dell'immensa struttura del sapere matematico " nascosto " che i bambini debbono edificare da soli. Nella geometria intuitiva del bambino di quattro o cinque anni, la linea retta non rappresenta necessariamente la distanza più corta tra due punti, e camminare lentamente da un punto a un altro non richiederà necessariamente più tempo del camminare veloce. Anche in questi casi, quello che manca non è semplicemente un dato specifico di conoscenza, ma il presupposto epistemologico che sottende l'idea di " più corto " come una proprietà del percorso piuttosto che dell'azione di percorrerlo. Niente di tutto ciò dovrebbe essere considerato come una semplice lacuna nel sapere del bambino. Piaget ha dimostrato come i bambini piccoli abbiano sul mondo delle teorie perfettamente coerenti nei termini in cui sono formulate. ` Queste teorie, che tutti i bambini " apprendono " spontaneamente, hanno componenti ben sviluppate che non sono; meno " matematiche " di quelle comunemente accettate nella nostra cultura adulta. I1 processo d'apprendimento invisibile ha almeno due fasi: già nel periodo prescolare ogni bambino si costruisce dapprima una o più teorizzazioni pre-adulte del mondo e in seguito si avvicina a punti più simili a quelli degli adulti. Tutto questo avviene attraverso quello che io ho definito apprendimento piagetiano, un processo d'apprendimento di cui le scuole dovrebbero invidiare più di una caratteristica: è efficace (tutti i bambini riescono), è poco costoso (sembra non richiedere né insegnante, né programma da seguire), ed è umano (i bambini lo seguono con uno spirito libero da punizioni e ricompense imposte dall'esterno).

Fino a che punto, nella nostra società, gli adulti hanno perso quell'attrazione per l'apprendimento che è tipica del bambino? La risposta varia da individuo a individuo. Una percentuale sconosciuta, ma certamente significativa, della popolazione ha quasi certamente cessato di apprendere. Queste persone, raramente, se non mai, si lanciano in un apprendimento deliberato e si sentono incompetenti e incapaci di trarne piacere. È una perdita notevole, sia per la società che per gli individui: la matofobia limita gli orizzonti della vita sia sul piano culturale che sul piano materiale. Molte altre persone non hanno del tutto rinunciato all'apprendimento ma sono gravemente ostacolate da ben radicate opinioni negative sulle loro capacità. Esse si identificano nelle difficoltà personali: " Io non posso imparare il francese, non ho orecchio per le lingue "; " Io non potrei mai essere un uomo d'affari, non ho il bernoccolo per le cifre "; " Io non riuscirò mai nello sci parallelo, non sono mai stato coordinato ".

Queste convinzioni spesso sono ripetute come un rito, come delle superstizioni. E, come le superstizioni, esse creano dei tabù: in questo caso rispetto all'apprendimento. Nel presente capitolo e nel successivo, sarà dimostrato, in base ad alcune esperienze, come queste immagini che i soggetti si fanno di se stessi spesso non corrispondono che a un aspetto della realtà (di solito una personale realtà scolastica). In un ambiente d'apprendimento che offre il supporto affettivo e intellettuale necessario, "il soggetto scoordinato" può imparare numeri da circo tipo quelli del giocoliere, e colui che " non ha il bernoccolo delle cifre " si accorgerà non soltanto che può fare matematica, ma che può anche prenderci gusto. Sebbene queste immagini negative possano essere superate, bisogna riconoscere che esse si radicano profondamente nella vita di un individuo, e si rinforzano di continuo. Quando una persona è fermamente convinta di non poter fare matematica, riuscirà quasi sempre a fallire in tutto quello che considera matematico. Il risultato di un tale autosabotaggio è l'insuccesso personale, e ogni insuccesso conferma la convinzione iniziale. Ora questo genere di convinzione può essere tanto più insidioso quando è posseduto non soltanto dai singoli individui, ma da un'intera società. I nostri bambini crescono in una cultura permeata dall'idea che ci sono delle "persone intelligenti" e altre "stupide". Ogni persona è definita dalla società come un insieme di attitudini. Ci sono i "matematici " e quelli che non lo sono. Tutto è stabilito in maniera tale che i bambini attribuiscono il loro primo insuccesso o la prima esperienza infelice nell'apprendimento a incapacità da parte loro. Di conseguenza i bambini vivono l'insuccesso come qualcosa che li relega o nel gruppo di " coloro che sono stupidi " o, più spesso, nel gruppo di coloro che " sono ottusi in x " (dove, come è già stato puntualizzato, x equivale spesso alla matematica). Con questo sistema i bambini si definiranno in funzione dei loro limiti, e questa definizione sarà consolidata e rinforzata durante tutta la loro vita. E' raro che qualche evento eccezionale conduca le persone a riorganizzare l'immagine che hanno della propria intelligenza fino al punto da aprirsi a nuove prospettive su ciò che può essere appreso.

Queste opinioni sulla struttura delle abilità umane non sono facili da scalzare. Non è mai semplice sradicare una credenza popolare e in questo caso numerosi altri fattori accrescono la difficoltà. Innanzitutto le teorie popolari sulle attitudini umane sembrano rafforzate da quelle "scientifiche". Gli psicologi non parlano forse di misurare le attitudini? ¶

Ma ci si può chiedere se quello che viene misurato ha un vero significato; è sufficiente immaginare l'esperienza di Matelandia. ¶

Se il fatto di riferirsi a Matelandia lascia aperta la questione relativa alla possibilità di creare davvero un tale paese, tuttavia esso vale come dimostrazione rigorosa che le credenze condivise sull'attitudine alla matematica non derivano dai dati di cui disponiamo.1Ma poiché i lettori veramente matofobi rischiano di avere dei problemi a far proprio il mio esperimento ipotetico, io rinforzerò l'argomento presentandolo sotto un'altra forma. Immaginiamo di voler costringere i bambini, per un'ora al giorno, a disegnare dei passi di danza su carta quadrettata, e poi a superare delle prove su questi " elementi di danza ", prima di permetter loro di ballare nel vero senso della parola. Non ci aspetteremmo forse un mondo popolato di "danzofobi "? E avremmo il diritto di dire che quanti avessero invece imparato a danzare su una vera pista da ballo accompagnati dalla musica, avevano le più elevate "attitudini " per la danza? Dal mio punto di vista, ritengo che allo stesso modo non abbiamo il diritto di trarre delle conclusioni sulla natura dell'attitudine alla matematica in base al fatto che i bambini recalcitrano a fare addizioni per centinaia di ore.

Si potrebbe pensare che passando dalle parabole ai metodi più rigorosi della psicologia, sarebbe possibile ottenere dei dati più "solidi" sul problema dei reali livelli massimi di competenza raggiungibili. Ma non è così: il modello in uso nella contemporanea psicologia dell'educazione è orientato su ricerche relative a come i bambini apprendono o (più generalmente) non apprendono la matematica nell'Anti-Matelandia in cui viviamo. L'indirizzo di tali ricerche presenta una analogia con la seguente parabola:

Immaginiamo che un uomo del XIX secolo fosse desideroso di migliorare i mezzi di trasporto del suo tempo. Egli era convinto che per mettere a punto delle tecniche nuove, bisognava cominciare approfondendo i problemi esistenti. Si dedicò, quindi, ad un accurato studio comparativo delle diverse carrozze a cavalli. Si documentò scrupolosamente, con i metodi più raffinati, sul variare della velocità secondo il disegno e il materiale dei vari tipi di assi, la portata, le tecniche di bardatura.

Retrospettivamente, sappiamo che la strada seguita dal progresso è stata completamente diversa. L'invenzione dell'automobile e dell'aeroplano non sono derivate da uno studio dettagliato su come funzionavano o non funzionavano le antiche carrozze a cavalli. Nondimeno questo è il modello della attuale ricerca pedagogica: si prende la classe scolastica nella sua forma odierna o la cultura extracurriculare, come oggetto primario di indagine. Sono molti gli studi concernenti le modeste conoscenze matematico-scientifiche che gli studenti acquisiscono nella scuola così com'è oggi. Si vede anche prevalere una opinione "umanistica" secondo cui una " buona " pedagogia dovrebbe considerare questo mediocre stato di cose come punto di partenza per le sue ricerche. È facile simpatizzare con l'intento umanistico. Nondimeno io penso che questa strategia cerchi soprattutto di preservare il sistema tradizionale. E' analoga a quella di migliorare l'asse della vettura a cavallo. Ma la vera questione, se così si può dire, è sapere se si può inventare in pedagogia l'equivalente dell'automobile. Poiché questa questione (che è il tema centrale del presente libro) non è stata posta dalla psicologia dell'educazione, si deve concludere che le "basi" scientifiche per poter giustificare le teorie in corso sulle attitudini e inettitudini sono davvero poco solide. Ma queste teorie sono ormai istituzionalizzate nelle scuole, nei sistemi di prove d'esame e nei criteri d'ammissione all'insegnamento superiore. Di conseguenza la loro base sociale è tanto stabile quanto quella scientifica è precaria.

Fin dalla scuola materna si sottopongono i bambini a tests sulle loro attitudini, concernenti l'espressione verbale e la nozione di numero, essendo ciascuna concepita come entità "reale" e separabile. II risultato di questi tests contribuisce a classificare ciascun bambino in una categoria, secondo le attitudini riconosciute. Dal momento in cui Pierino e il suo insegnante condividono l'opinione che Pierino è "portato per il disegno" e "debole in matematica", questa opinione tende a radicarsi. È ben questo che è accettato largamente dalla psicologia dell'educazione contemporanea. Ma ci sono aspetti più gravi del modo in cui la scuola costruisce le attitudini. Consideriamo il caso di un bambino che io ho avuto occasione di osservare durante il suo ottavo e nono anno. Jim era un bambino dall'ottima espressione verbale e matofobo, proveniente da una famiglia di professionisti. Il suo interesse per le parole e per la conversazione si manifestò alquanto presto, molto tempo prima che andasse a scuola. La matofobia si sviluppò a scuola. La mia teoria è che fosse un risultato diretto della sua precocità verbale. Seppi dai suoi genitori che Jim aveva preso l'abitudine, assai presto, di descrivere parlando, spesso a voce alta, tutto quello che stava facendo. Tale abitudine gli aveva procurato delle difficoltà con i genitori e con gli insegnanti della scuola materna, ma niente di grave. II vero disagio lo provò nelle lezioni di aritmetica. Durante queste ore era riuscito a controllare quel suo parlare a voce alta, ma io credo che continuasse a commentare mentalmente le sue attività. Durante le lezioni di matematica si ritrovò in una situazione difficile: egli semplicemente non sapeva esprimere verbalmente il procedimento dell'addizione. Gli mancava un vocabolario per quel tipo di attività, di cui inoltre non conosceva lo scopo. Da questa frustrazione delle sue abitudini verbali nacque un odio per la matematica, e da questo odio nacque a sua volta quello che i test successivi confermarono come scarsa attitudine.

Per me questa storia è emblematica. Io sono convinto che quello che si manifesta come debolezza intellettuale molto spesso deriva, come nel caso di Jim, da forze intellettuali. E non sono soltanto le forze verbali che possono distruggerne altre. Chiunque abbia osservato attentamente i bambini, deve aver visto processi simili operanti in diverse direzioni: un bambino, per esempio, tutto preso dall'ordine logico, è portato a rifiutare l'ortografia della lingua inglese, e da qui a provare una globale avversione per la scrittura.

I1 concetto di Matelandia ci indica come usare gli elaboratori per evitare situazioni come quella di Jim o del suo opposto dislessico. I due bambini sono vittime del taglio netto operato dalla nostra cultura tra ciò che è verbale e ciò che è matematico. In Matelandia, che descriverò in questo capitolo, l'amore per la parola di Jim e la sua abilità verbale potrebbero essere mobilitate per facilitare il suo sviluppo matematico formale, invece di ostacolarlo, come pure l'amore delI'altro bambino per la logica potrebbe essere recuperato per stimolare in lui l'interesse alla linguistica.

L'idea di mobilitare le molteplici forze di un bambino per utilizzarle in tutti i campi di attività intellettuale, è una replica all'insinuazione che differenti attitudini possano riflettere reali differenze nello sviluppo del cervello. È diventato luogo comune parlare con la convinzione che ci sono cervelli separati, o "organi" separati nel cervello, uno per la matematica, un altro per l'espressione verbale. Secondo questo modo di pensare, i bambini si dividono in coloro che hanno attitudini verbali e in coloro che hanno attitudini matematiche, in ragione del rispettivo sviluppo degli organi cerebrali. Ma questa tesi che parte dall'anatomia per arrivare all'intelletto, sottintende una serie di postulati epistemologici. Presuppone, ad esempio, che ci sia una sola via d'accesso alla matematica e che se questa via è "bloccata anatomicamente", il bambino non può arrivare a destinazione. E infatti, nelle società contemporanee, non c'è che una sola via per la matematica superiore, quella della matematica scolastica. Ma anche se ulteriori ricerche sulla biologia del cervello dovessero confermare che questa via dipende dall'anatomia degli organi cerebrali, che in alcuni bambini potrebbero mancare, non ne conseguirebbe che la matematica stessa dipende da questi organi. Semmai se ne dovrebbe dedurre che noi dobbiamo cercare altre vie d'accesso. E poiché questo libro ha lo scopo di provare che esistono altre vie, si può leggerlo anche come dimostrazione che la dipendenza di una funzione dal cervello è essa stessa una costruzione sociale.

Supponiamo, per ipotesi, che esista una regione speciale del cervello, particolarmente adatta alla manipolazione mentale dei numeri, così come noi li insegnamo a scuola, e chiamiamola DAM, ossia " dispositivo di acquisizione matematica ". Sulla base di questa ipotesi, si potrebbe supporre che nel corso della sua storia il genere umano abbia sviluppato dei metodi per fare e per insegnare aritmetica, che traggono pieno vantaggio dal DAM. Ma mentre questi metodi funzionerebbero per la gran parte di noi, e dunque per l'insieme della società, fare affidamento su di loro potrebbe rivelarsi catastrofico per una persona il cui DAM fosse stato danneggiato o bloccato per altre ragioni (magari per una " nevrosi "). Una tale persona non potrebbe che fallire a scuola e sarebbe diagnosticata come vittima della " discalcolia ". E finché noi insisteremo nel far apprendere ai nostri bambini l'aritmetica per la via consueta noi continueremo a " provare ", mediante test oggettivi, che questi bambini realmente non possono " fare aritmetica ". Sarebbe come dimostrare che i bambini sordi non possono parlare perché non sentono. In effetti, come i linguaggi mimici utilizzano gli occhi e le mani per sostituire i comuni organi della comunicazione orale, allo stesso modo potrebbero esistere modi alternativi di fare matematica, che aggirino il DAM e, pur differendo da quelli abituali, siano altrettanto validi.

Ma non dobbiamo ricorrere alla neurologia per spiegare perché certi bambini non s'impadroniscono con disinvoltura della matematica. L'analogia con un corso di danza, condotto senza musica e senza pista, va considerata seriamente. La nostra cultura in fatto di educazione non offre a chi impara la matematica che scarse occasioni per dare un senso a ciò che sta imparando. I1 risultato è che i nostri bambini sono costretti a seguire il modello peggiore per l'apprendimento della matematica: quello meccanico, dove la materia è trattata come se non avesse alcun significato; è un modello dissociato. Alcune delle nostre difficoltà nell'insegnare una matematica che si integri meglio con l'insieme della cultura sono dovute a un problema oggettivo: prima che avessimo gli elaboratori a nostra disposizione, c'erano pochi punti di contatto validi tra quello che è fondamentale e interessante in matematica e qualunque cosa appartenente alla vita di tutti i giorni. Ma l'elaboratore - che " parla matematica " nell'ambito della vita quotidiana a casa, a scuola, al lavoro - può fornire tali legami. La sfida lanciata all'educazione consiste nello scoprire come utilizzarli.

La matematica non è sicuramente l'unico esempio di apprendimento dissociato. Ma è uno dei migliori per il semplice motivo che molti lettori, in questo momento, stanno probabilmente desiderando che io parli di qualche altra cosa. La nostra cultura ha una tale fobia, un tale timore della matematica che, se potessi dimostrare come l'elaboratore può portarci a stabilire un nuovo rapporto con essa, avrei solide basi per affermare che è ugualmente in grado di cambiare il nostro rapporto con altri tipi di apprendimento che fossero temuti. Le esperienze vissute in Matelandia, come quella di partecipare a una " conversazione matematica ", danno all'interessato il senso liberatorio di essere capaci di fare una varietà di cose che fino ad allora sembravano " troppo difficili ". E' in questo senso che il contatto con l'elaboratore può aprire a tutti la via al sapere, non in maniera meccanica fornendo informazioni inserite nel programma, ma mettendo in dubbio alcuni pregiudizi negativi che si hanno su se stessi.

La Matelandia basata sull'elaboratore che io propongo, estende al campo matematico il tipo di apprendimento naturale piagetiano che spiega il successo dei bambini nell'imparare la lingua materna. L'apprendimento piagetiano si innesta profondamente su altre attività. Per esempio il bambino non ha ore prestabilite per " imparare a parlare ". Questo modello di apprendimento si oppone all'apprendimento dissociato che avviene in situazione di relativo isolamento da altri tipi di attività, sia fisiche che intellettuali. Nella nostra cultura l'insegnamento della matematica a scuola è paradigmatico dell'apprendimento dissociato. Per la maggior parte della gente, la matematica è somministrata e presa come una medicina. Nel dissociare la matematica dal resto della conoscenza la nostra cultura tende sempre più a rendere caricaturali le sue peggiori tendenze di alienazione epistemologica. Negli ambienti LOGO abbiamo confuso un po' le linee di confine: nessuna particolare attività informatica è stata distinta dalle altre con l'etichetta di " apprendimento matematico ". La difficoltà di fare in modo che la matematica " abbia un senso " per l'allievo, investe il problema più generale di dare un senso a ogni linguaggio di " descrizione formale ". Quindi, prima di fornire esempi relativi al modo in cui l'elaboratore serve a dare un significato alla matematica, ne esamineremo numerosi altri in cui il suo uso ha contribuito chiaramente a rendere significativo un linguaggio di descrizione formale in campi del sapere non considerati usualmente come matematica. Nel nostro primo esempio questo campo è la grammatica, disciplina solo un po' meno terrificante della matematica. Nel corso di un anno di sperimentazione scolastica con grossi elaboratori un gruppo di studenti del settimo anno, di livello " medio ", lavorava a quello che essi chiamavano " poesia informatica ": programmavano l'elaboratore per generare delle frasi. Davano all'elaboratore una struttura sintattica che la macchina applicava per attingere, con scelte aleatorie, delle parole da liste prestabilite. Ne risultò un genere di poesia concreta come quella presentata nell'illustrazione che segue. Jenny, un'allieva di tredici anni, il primo giorno che lavorò al calcolatore aveva profondamente colpito il gruppo di ricerca con questa domanda: " Perché ci hanno scelti per questo? Noi non siamo dei cervelloni ". Il progetto di ricerca aveva deliberatamente scelto dei bambini dai risultati scolastici medi. Un giorno Jenny arrivò molto eccitata: aveva fatto una scoperta. " Ora so perché ci sono i nomi e i verbi ", aveva detto. In tutti i suoi anni di scuola, a Jenny erano stati fatti fare esercizi di analisi grammaticale. Lei non aveva mai capito la differenza tra nomi, verbi e avverbi. Pertanto, ora, era chiaro che le sue difficoltà in grammatica non derivavano dalla incapacità di manipolare le categorie logiche. Si tratta di qualcosa d'altro. Semplicemente, non aveva afferrato lo scopo dell'attività. Non era arrivata a capire quello che era la grammatica, vale a dire a cosa poteva servire. E quando lei aveva chiesto a che cosa serviva, gli insegnanti le avevano fornito delle risposte che sembravano apertamente disoneste. Le avevano detto che " la grammatica aiuta a parlare meglio ".

il folle ritardo fa perché il dolce snoopy urla
il lupo sexy ama ecco perché la sexy signora odia
il brutto uomo ama perché il brutto cane odia
il lupo infuriato odia perché il lupo pazzo salta
il ritardo sexy urla ecco perché il ritardo sexy odia
il magro snoopy corre perché il grasso lupo saltella
il dolce foginy salta una dolce signora corre ¶

Poesia concreta di Jenny *

[* Insane retard makes beeause sweet snoopy screams / Sexy wolf loves thats why the sexy lady hates / Ugly man loves because ugly dog hates / Mad wolf hates because insane wolf skips / Sexy retard screams thats why the sexy retard hates / Thin snoopy runs because fat wolf hops / Sweet foginy skips a fat lady runs.]

In realtà, per collegare lo studio della grammatica al perfezionamento della lingua parlata, è necessaria una visione più distaccata, riguardo alla lingua e al suo apprendimento, di quella che aveva Jenny all'età in cui ebbe i suoi primi contatti con la grammatica. Lei certamente non vedeva in che cosa la grammatica avrebbe potuto aiutarla a parlare, né pensava di aver bisogno di alcun aiuto. Perciò il suo approccio alla grammatica era carico di risentimento, e come avviene per molti di noi, il risentimento garantiva l'insuccesso. Ma ora, poiché lei si sforzava di far generare all'elaboratore delle poesie, accadde qualcosa di straordinario. Si era ritrovata da sola a classificare le parole in categorie, non perché le era stato imposto, ma perché ne aveva bisogno. Per "insegnare" al suo elaboratore a manipolare sequenze di parole che assomigliassero all'inglese, doveva "insegnargli" a scegliere parole di una classe adatta allo scopo. Questa esperienza con una macchina non le aveva insegnato sulla grammatica niente di meccanico o ripetitivo. Jenny aveva afferrato qualcosa di profondo e ricco di significato, che superava la semplice acquisizione delle categorie grammaticali. Aveva capito l'idea generale che si possono classificare le parole—come le cose—in differenti gruppi o insiemi, e che questa operazione ha la sua utilità. E non solo aveva "capito" la grammatica, aveva soprattutto cambiato il suo rapporto con questa disciplina. La grammatica era ormai "sua", e durante quell'anno passato in compagnia dell'elaboratore, fatti di questo genere aiutarono Jenny a trasformare l'immagine che aveva di se stessa. Anche i suoi risultati scolastici cambiarono: il suo rendimento, che prima era stato inferiore alla media, nei rimanenti anni di scuola si avvicinò all'ottimo. Aveva appreso che anche lei poteva essere "un cervello" dopotutto.

E' facile comprendere perché la matematica e la grammatica non hanno un senso per i bambini dal momento che non ne hanno per chi vive intorno a loro; e perché aiutare gli allievi a darvi un senso richiede all'insegnante molto più di un discorso perfetto o di un esatto diagramma alla lavagna. Ho domandato a insegnanti e genitori che cos'era la matematica per loro e perché era importante impararla. Pochi avevano di questa materia un'idea abbastanza coerente da giustificare le migliaia di ore della vita di un bambino ad essa consacrate. Quando un insegnante risponde a un allievo che la ragione di tutte quelle ore di aritmetica è l'essere capaci di verificare il resto al supermercato, L'allievo non gli crede affatto. I bambini vedono in tali "ragioni" un'ulteriore prova dell'ambiguità degli adulti. L'effetto non cambia quando si dice loro che la matematica è "divertente", perché essi sono ben certi che ad affermarlo sono degli insegnanti che dedicano il loro tempo libero a tutt'altra cosa che a questa piacevole attività. Né ci è di aiuto il dir loro che la matematica è necessaria per diventare degli scienziati—la maggior parte dei bambini non ha di questi progetti! I bambini si rendono conto perfettamente che l'insegnante non "ama" la matematica più di quanto l'amino loro, e che la sola ragione per farla è che questa disciplina è nel programma. Tutto questo distrugge la fiducia che i bambini hanno nel mondo adulto e nel processo d'istruzione. E io penso che introduca un profondo elemento di disonestà nel rapporto educativo. La retorica scolastica sulla matematica è per i bambini un discorso ambiguo. Per rimediare alla situazione, dobbiamo innanzitutto riconoscere che questa sensazione è, in fondo, corretta. Il tipo di matematica imposto ai bambini nelle scuole non è significativo, piacevole, e tanto meno utile. Questo non vuol dire che un bambino non possa trasformarlo in un gioco personale, valido e divertente. Per alcuni il gioco consiste nell'assicurarsi buoni voti; per altri nel farla in barba all'insegnante e al sistema. Per molti, infine, la matematica scolastica è gradevole nella sua ripetitività, proprio perché è così staccata dalla realtà e così dissociata da consentire di non partecipare a quello che sta accadendo in classe. Ma tutto ciò non prova che il candore dei bambini. E non si giustifica la matematica scolastica dicendo che nonostante la sua intrinseca monotonia, dei bambini creativi possono trovarvi entusiasmo e significato. L' importante avere bene in mente la distinzione tra la matematica—una vasta area di ricerca la cui bellezza raramente è immaginata dai non-matematici— e qualche altra cosa che io chiamerò matematica scolastica.

Personalmente considero la matematica scolastica come una costruzione sociale, un prodotto del genere di QWERTY. Una serie di casi storici (che saranno trattati in seguito) hanno determinato la scelta di certi contenuti matematici che dovevano essere il bagaglio di ogni cittadino. Allo stesso modo della disposizione QWERTY sui tasti della macchina da scrivere, la matematica scolastica aveva un senso in un certo contesto storico. Ma, come QWERTY, essa ha attecchito tanto bene che si è finito per considerarla come valida in assoluto e si sono escogitate delle razionalizzazioni a suo favore molto tempo dopo che erano cadute le condizioni storiche che la rendevano sensata. Infatti, nella nostra cultura, la maggioranza della gente trova inconcepibile che la matematica scolastica possa essere diversa da quella che è: è la sola matematica che conoscono. Per spezzare questo circolo vizioso, introdurrò il lettore in una nuova area matematica, quella della geometria della Tartaruga, che i miei colleghi ed io abbiamo creato per offrire ai bambini una prima base d'esperienza di matematica formale, che sia accessibile e significativa per loro. Ma per meglio comprenderne i criteri progettuali, conviene esaminare più da vicino le condizioni storiche che hanno dettato la forma della matematica scolastica. Alcune di queste condizioni storiche furono di natura pragmatica. Prima dell'apparizione dei calcolatori elettronici, vi era la necessità, di ordine pratico-sociale, che un buon numero di persone fossero " programmate " per effettuare delle operazioni, come le lunghissime divisioni, in fretta e accuratamente. Ma poiché attualmente si possono comperare calcolatori a buon mercato, si dovrebbe riesaminare se è indispensabile o no dedicare centinaia di ore della vita di ogni bambino all'apprendimento di tali funzioni aritmetiche. Io non voglio assolutamente negare il valore intellettuale di una certa conoscenza, anzi, di una approfondita conoscenza, dei numeri. Lungi da me! Ma ora ci è permesso di determinare questa conoscenza su delle basi più selettive, coerenti e razionali. Possiamo liberarci dalla tirannia delle considerazioni superficiali e pragmatiche che dettarono in passato le scelte relative a quello che si doveva apprendere e a quale età bisognava apprenderlo.

Peraltro l'utilità fu solo una delle ragioni storiche che sostennero la matematica scolastica. Altre furono di natura matetica. Per "matetico" intendo l'insieme dei principi che governano l'apprendimento. Alcune delle ragioni storiche della matematica scolastica vanno rapportate a ciò.che si poteva imparare e insegnare in epoca preinformatica. A mio avviso, un fattore fondamentale che determinò quale parte della matematica dovesse entrare nei programmi scolastici fu quello delle attività accessibili nell'assetto delle classi, con la tecnologia rudimentale connessa all'uso di carta e matita. Con carta e matita i bambini, per esempio, riescono a disegnare grafici. Quindi si decise di far disegnare ai bambini molti grafici. Lo stesso ordine di considerazioni ha influenzato il rilievo dato a certi tipi di geometria. La " geometria analitica ", per esempio, è diventata nella matematica scolastica sinonimo di equazioni rappresentate sotto forma di curve. I1 risultato è che ogni persona con un minimo d'istruzione ricorda vagamente che y = x2 è l'equazione di una parabola. E, sebbene gran parte dei genitori non abbia che una pallida idea del perché chiunque dovrebbe saperlo, si indigna se i loro figli lo ignorano. Essi ritengono che ci sia, senza dubbio, una ragione profonda e oggettiva, conosciuta da coloro che si intendono della materia. L'ironia è che sia appunto la loro matofobia a trattenere molte persone dal tentare di esaminare attentamente quelle ragioni, abbandonandole così alla mercé dei sedicenti specialisti della matematica. Pochissime persone sospetterebbero che la ragione di ciò che è incluso o no nel programma scolastico di matematica può essere un dettaglio così crudamente tecnico come I'esigenza di facilitare il disegno a matita delle parabole. Ed è questo che dovrebbe cambiare profondamente in un mondo ricco di elaboratori: la gamma di costruzioni matematiche facili da realizzare sarà immensamente ampliata.

Un altro fattore matematico intervenuto nella creazione della matematica scolastica è la tecnica di graduare l'apprendimento. Una lingua viva si apprende parlando; non c'è bisogno di un insegnante per valutare e graduare ogni frase. Una lingua morta esige, invece, dall'insegnante un costante feedback. Nella matematica scolastica è l'attività conosciuta come " esercizi " che realizza questo feed-back. Tali assurdi esercizietti ripetitivi non hanno che un merito: sono facili da graduare. Ed è quello che ha assicurato loro una solida posizione al centro della matematica scolastica. In breve, io sostengo che la creazione della matematica in quanto disciplina scolastica è influenzata fortemente da ciò che si riteneva di poter insegnare quando la matematica era insegnata come una disciplina morta, con il solo ausilio di tecnologie rudimentali e passive costituite da bacchette e sabbia, gesso e lavagna, carta e matita. Il risultato è stato un insieme di contenuti privi di coerenza intellettuale, che viola i più elementari principi matetici riguardo a come viene facilitato L'apprendimento di certe materie e reso quasi impossibile quello di altre.

Di fronte a questa eredità scolastica, la formazione matematica può scegliere tra due tipi di approccio. Il primo, più tradizionale, consiste nell'accettare la matematica scolastica come un'entità data e nel battersi per insegnarla così com'è. Alcuni educatori si servono degli elaboratori con questo scopo. Perciò, paradossalmente, L'uso più diffuso dell'elaboratore nella didattica è quello di somministrare a forza agli allievi i contenuti indigesti ereditati dai tempi preinformatici. Il secondo tipo di approccio è rappresentato dalla geometria della Tartaruga, nella quale l'elaboratore ha un uso totalmente differente. L'elaboratore vi è adoperato come un mezzo d'espressione matematica, che rende liberi di ideare degli argomenti di matematica destinati ai bambini e che sono caratterizzati da coerenza intellettuale, da un significato riferito alla personalità di ciascuno di essi e da una grande facilità d'apprendimento. Invece di porci il problema pedagogico di " come insegnare la matematica scolastica esistente ", noi ci chiediamo come " ricreare la matematica ", o più generalmente come ricreare la conoscenza, per rendere meno laborioso il suo insegnamento.

Ogni " elaborazione del curricolo " potrebbe essere descritta come " creazione della conoscenza ". L'introduzione della Nuova Matematica nei programmi degli anni Sessanta, per esempio, è stato un tentativo per cambiare il contenuto della matematica scolastica. Ma non poteva andare lontano. Si ritornò ancora a quei famosi esercizi, benché fossero resi un poco differenti. Il fatto che gli esercizi fossero applicati ad insiemi invece che a numeri, che ci si esercitasse in base due e non in base dieci, non cambiava gran che. La riforma della matematica, inoltre, non lanciava una sfida alla fantasia inventiva dei matematici e così non si procurò mai quella scintilla creativa che segna il prodotto di un nuovo pensiero. Il nome stesso di " Nuova Matematica " era sbagliato. C'era poco di nuovo nel suo contenuto matematico: la cosiddetta matematica moderna non era il risultato di un processo d'invenzione di una matematica destinata ai bambini, ma di una banalizzazione della matematica dei matematici. I bambini necessitano e meritano qualcosa di meglio di una selezione di pezzi della vecchia matematica. Altrimenti, è come per i vecchi abiti che passano dai fratelli maggiori ai minori: non si adattano mai bene.

La geometria Tartaruga, fin dall'inizio, ha avuto lo scopo di adattarsi ai bambini. Il suo primario criterio progettuale era che si potesse " farla propria ". Naturalmente doveva avere un serio contenuto matematico, ma noi vedremo che le due cose non sono incompatibili. Al contrario: finiremo per renderci conto che parte della conoscenza più personale è anche la più profondamente matematica. In molti casi la matematica—per esempio dello spazio, del movimento, dei modelli ripetitivi d'azione—è quanto di più naturale per i bambini. È in questa matematica che noi radichiamo la geometria della Tartaruga. Man mano che lavoravamo su queste idee, i miei colleghi ed io, un certo numero di principi ha strutturato meglio il concetto di una matematica che possa essere fatta propria. Il primo è il principio di continuità: la matematica deve presentare una continuità con le conoscenze personali ben consolidate da cui può ricevere un senso di calore e forza come pure competenza " cognitiva ". Il secondo è il principio di potenza: deve permettere a chi apprende di concepire progetti personali carichi di significato, che non avrebbe mai potuto pensare prima. Il terzo, infine, è il principio di risonanza culturale: la materia deve avere senso in un più ampio contesto sociale. Ho già detto che la geometria della Tartaruga deve avere un significato per i bambini. Ma non può averne se non è accettata anche dagli adulti. Una vera matematica per i bambini, che sia degna di questo nome, non può essere qualcosa che ci permettiamo di infliggere loro, come una sgradevole medicina, senza vedere alcuna ragione per prenderla noi stessi.

Seymour Papert, MIND STORMS, bambini, computers e creatività
© 1980 Basic Books, Inc., New York
© 1984 Emme Edizioni s.r.l. via S. Maurilio, 13 - Milano
Titolo originale: Mindstorms
Traduzione di Anita Vegni
Copertina di Sergio Prozzillo