Bambini e computer

Ho letto un libro bellissimo.

L'autore è Papert, l'inventore niente meno che del linguaggio LOGO, che non dovrebbe pertanto avere bisogno di presentazione. Ma i temi trattati sono troppi, gli stimoli di riflessione e gli spunti per mandare in crisi convinzioni molto radicate sono talmente numerosi che è impossibile tentare anche solo un riassunto nelle poche righe di spazio che mi rimangono. Credo che cercherò di farlo in un'altra occasione, perché mi sembra che un libro così meriti di parlarne più a lungo. (intanto ne consiglio la lettura a chiunque si interessi non solo di educazione speciale o di educazione assista da computer, ma semplicemente di educazione: si intitola I Bambini e il computer, costa 27.000 lire, è di 250 pagine che si leggono tutte d'un fiato, è edito dalla Rizzoli e pertanto si trova facilmente in qualsiasi libreria).

Solo per darvi un'idea della ricchezza di riflessioni alle quali la lettura di un libro di questo genere può portare, voglio farvi un esempio, con l'ambizione e la speranza di aprire un dibattito su un tema che mi pare di importanza cruciale. Papert si chiede più volte: Come facciamo a imparare? Una domanda da quattro soldi, come si vede. Eppure la sua risposta è netta, decisa, senza paure. Impariamo esplorando liberamente, spesso in modo più o meno casuale, l'ambiente che ci sta intorno; impariamo giocando e divertendoci con le cose che ci interessano. Punto e basta.

E i programmi ministeriali? E le programmazioni di Istituto, le programmazioni di lntercircolo e di Circolo, quelle di classe e quelle di plesso, di interclasse e di classe e quelle individualizzate? Papert non pone le sue polemiche domande esattamente così perché vive negli Stati Uniti dove i termini per indicare queste cose sono un po' diversi, ma il succo è certamente questo. E la sua risposta è: non servono a niente; tempo buttato via; carta sprecata; zavorra burocratica buona per mettere il cuore in pace a qualche funzionario, pessima per far progredire un bambino lungo la strada della conoscenza.

Questa posizione rappresenta una critica violentissimo non solo ai sistemi scolastici tradizionali, ma anche all'uso che tradizionalmente viene fatto del computer nella didattica. La bestia nera di Papert è il così detto C.A.I., l'istruzione Assistita da Computer, i programmi didattici dei quali abbiamo tante volte parlato su queste pagine e ancora nei paragrafi precedenti di questo stesso articolo. In un passo del libro nei quale la polemica si fa particolarmente acuta, Papert racconta di aver visto un bambino che giocava con uno di questi programmi e sbagliava di proposito le risposte perché si divertiva a scoprire il comportamento del computer dopo gli errori! Ho molto riassunto questo episodio, ma la sua morale è comunque chiarissima: è inutile, è dannoso, è impossibile prevedere in anticipo il percorso che un essere umano farà per arrivare ad una nuova conoscenza. Hegel direbbe: non fate come quel filosofo scolastico che voleva essere sicuro di saper nuotare perfettamente prima di avventurarsi nell'acqua.

Proviamo allora a vedere che cosa succede se spingiamo queste tesi fìno alle estreme conseguenze. Dato che qui ci occupiamo di computer, di apprendimento e di handicap, potremo domandarci: la diagnosi funzionale, il profilo dinamico funzionale, il PEI (Piano Educativo lndividualizzato), il PEP (Piano Educativo Personalizzato), il PARG (Progetto Abilitativo Riabilitativo Globale) e tutti gli adempimenti tecnico-burocratici (chissà quanti ne dimentico) che vengono richiesti per "favorire" (?) l'inserimento degli handicappati saranno veramente necessari? Saranno utili? Saranno almeno innocui?

Ho pubblicato di recente un libro di quasi cinquecento pagine che si intitola Come si costruisce il Piano Educativo i lndividualizzato, quindi potete credermi se vi dico che queste domande mettono in crisi prima di tutto me stesso. Pensavo a questo mentre portavo mio figlio Francesco ad una processione di paese, qualche settimana fa. La banda municipale suonava. Francesco, che ha tre anni e mezzo, apprezzava molto. lo, con tutto il rispetto per quei volenteroso dilettanti, un po' meno: le rare volte che ho l'occasione di sentire un'opera o un concerto alla Scala ho la sensazione netta che i professori d'orchestra suonino meglio di una banda di paese e non è facile togliermi dalla testa che questo derivi dal fatto che i suonatori della banda hanno "liberamente" esplorato il mondo delle sette note, si sono divertiti e ancora si divertono in questa attività, mentre il professori della Scala hanno seguito in conservatorio programmi rigidi e hanno fatto migliaia di ore di esercizi spesso faticosi e noiosissimi. Ecco l'importanza dei programma, pensavo, di un progetto razionalmente prestabilito.

Eppure...

Eppure chi non ha fatto nella sua vita l'esperienza di vedere un bambino che si dedica con piacere e per divertimento ad un'attività imparando da essa una quantità di cose che a nessun insegnante verrebbe mai in mente dì programmare a priori? Quale insegnante segue davvero, ogni giorno e con ogni allievo, il Sacro Progetto che ha dovuto obbligatoriamente mettere per iscritto? Oggi i maestri di scuola elementare che lavorano nel modulo (tre insegnanti su due classi) devono riunirsi un pomeriggio la settimana per stendere la programmazione. Avrei voglia di chiedere loro: ma poi, il mattino dopo, quando fate lezione le cose vanno veramente come avevate previsto? L'assistente di una classe differenziale per bambini con disabilità di apprendimento - racconta Papert diede a Frank un certo numero di addizioni da fare su un foglio. A Frank non piaceva fare addizioni scritte, anche se se la cavava benissimo coi calcoli quando doveva costruire qualcosa con i pezzi del Lego.

Per togliersi di impiccio da una situazione per lui difficile, il bambino si arrangiava di solito contando con le dita. Ma l'assistente non permetteva questo metodo. Al povero Frank prudevano le dita, ma sapeva che quel giorno non avrebbe potuto usarle per fare i suoi calcoli. Si guardò intorno, per cercare qualche oggetto con cui contare. Niente. Papert, allora, si avvicinò ai bambino e gli dìsse: Non hai pensato ai denti?. Il bambino capì al volo (l'assistente, invece, per fortuna, non capì nulla). Fece così le sue addizioni, "sorridendo di nascosto e chiaramente soddisfatto di quell'idea così sovversiva. E poi parlano di disabilità di apprendimento! " (pp. 102 -103).

E allora, come la mettiamo? Costruiamo a priori il programma o lasciamo i bambini liberi di imparare?

Spero che non vi sembri una pura disputa filosofica, perché le implicazioni pratiche di questa questione sono enormi. Vanno dall’obbligo della programmazione didattica alla libertà di insegnamento. Voglio dare ancora la parola all’autore del libro, per un ultimo esempio di "un sistema che tradisce i sui scopi. Il preside di una scuola di New York entra in una classe per ascoltare una lezione di chimica. La lezione è brillane. Il preside entusiasta. Dopo (a lezione si congratula con l'insegnante per l'ottima esposizione e quindi gli chiede di vedere il piano della lezione. L'insegnante risponde che poiché conosce la materia molto bene e si tiene sempre aggiornato, non ritiene necessario preparare un piano di lezione, Il preside ovviamente non ha nulla da obiettare sul modo in cui è stata condotta la lezione, ma l'insegnante, giudicato colpevole per non aver seguito le procedure stabilite, riceve una nota di demerito nella sua cartella personale" (pp, 72-73).

Mi pare chiaro, d'altra parte, che le implicazioni pratiche di questa discussione non si limitano alla libertà di insegnare (e di imparare) come vuole, ma finiscono per coinvolgere anche il modo di concepire e mettere a punto un software didattico utile ad un allievo. Ecco perché il libro di Papert mi ha così profondamente colpito e ora vi chiedo di darmi una mano. Scrivetemi, su questo, i vostri punti di vista, le vostre esperienze, i vostri dubbi, le vostre impressioni. Proviamo ad aprire una discussione e vediamo se, tutti insieme, riusciamo un po' a chiarirci le idee.

Da Microcomputer n.152 giugno 1995 Computer e scuola (p.240)